In occasione di mostre significative che prevedessero la stampa di un catalogo, anche nell’ultimo periodo della sua vita, Cesare Peruzzi, quasi con ostinazione, chiedeva che prima di ogni altra illustrazione di sue opere figurassero le due copie che egli aveva dipinto da ragazzo e, poco più tardi, nel periodo dell’Accademia, della cinquecentesca “Madonna del latte” di Antonio da Faenza nella Collegiata di Montelupone. Dietro alle impuntature di un artista spesso si nascondono significati importanti, non rivelati ma profondi, da non tralasciarsi, tuttavia, per una comprensione del carattere e della ricerca stessa dell’artista. Perché Peruzzi teneva tanto al fatto che quelle due opere figurassero prima di ogni altra nei suoi cataloghi? Eppure si trattava di esercitazioni, superate poi da prove ben più impegnative ed originali. Si penserebbe a un semplice desiderio di evocare le origini, e dunque Montelupone come luogo della prima giovinezza: un riferimento soprattutto affettivo. Credo invece che Peruzzi volesse documentare i tempi e i modi di un’altra sua nascita, quella d’artista. In quel luogo ed in quella forma s’era manifestata in lui una vocazione vera, a cui non avrebbe più potuto rinunciare. Tra quei due termini – due paletti che segnavano e demarcavano uno stimolo infantile e poi, a modo di raffronto, uno stato di già consapevole operatività – era iniziata la sua vita d’artista, quella che egli avrebbe sempre considerato la più significativa ed importante per se stesso. E se in ciò volessimo cogliere anche un altro significato, dovremmo far caso al fatto che il suo primo modello non fosse scelto con criterio soltanto visivo, dalla realtà intorno, come sarebbe poi normalmente avvenuto nel seguito della sua ricerca, ma in un’opera del passato, e dunque un modello da ritenersi in qualche modo “storico”, emblematico di una tradizione culturale e di storia. Una mostra a Montelupone, luogo di nascita anagrafica, ma soprattutto riferimento non trascurabile della sua nascita all’arte, credo che oggi, a cinque anni esatti dalla scomparsa di Cesare Peruzzi, debba far riflettere sul suo atteggiamento anche ideologico riguardo all’arte, o quantomeno indicare questa possibilità, di aprire un discorso critico, al di là dell’immagine e dell’affezione che l’opera ha creato in un pubblico indubbiamente numeroso, specie nelle Marche. La pacatezza, l’operosità appartata, un atteggiamento intimistico dell’artista, e soprattutto l’orientamento di molta critica a rilevare quasi esclusivamente la grazia di alcuni soggetti prediletti e ricorrenti, hanno ingenerato l’impressione di un disimpegno teorico o di militanza intellettuale, e, forse, di isolamento e di estraneità rispetto al contesto artistico contemporaneo e alle esigenze anche pratiche della vita. Ed invece Peruzzi è stato un artista attento e consapevole anche sotto questo profilo. Ce lo dicono, oltre tutto, numerose sue dichiarazioni, che chi scrive ha avuto l’opportunità di recepire e registrare, ed alcuni documenti inediti o poco conosciuti che dimostrano quale sia stata la sua attenzione in proposito. Ma accanto all’impegno e ad una consapevolezza storica che per certi versi avrebbe potuto risultare spersonalizzante, Peruzzi ha sempre ritenuto di dover far vivere le sue attitudini, le peculiarità della sua sensibilità, il desiderio di dimostrare soprattutto con le opere, rivendicando una liibertà che, attraverso le opere, appunto, valesse in termini di autenticità e di coerenza. I momenti ed i moventi del suo impegno in tal senso si possono individuare in alcune scelte significative. Già nel periodo d’accademia egli figura nella triade del direttivo della “1ª Esposizione giovanile d’arte” a Roma, e, nello stesso anno 1915, tra gli ammessi alla mostra internazionale di “Secessione”. Come è noto, l’ideologia secessionista rappresentò in generale atteggiamenti libertari, di contestazione nei confronti dell’arte ufficiale e in special modo accademica. Anche dalla corrispondenza avuta con Luigi Bartolini, deducibile dalle lettere rimaste di quest’ultimo, si comprende come Peruzzi condividesse con l’amico incisore la necessità di “lanciare un manifesto ai giovani artisti marchigiani per invitarli a unirsi in un’associazione per l’incremento dell’arte nelle nostre dimenticate, apatiche province”, e soprattutto, di contrastare il manierismo e le mode correnti, impersonate al tempo dai cosiddetti “neoclassici”, contrapponendogli un’espressività sincera, non imbrigliata da consuetudini rigidamente canoniche né dal gradimento del pubblico e dunque da opportunismi di mercato. Chiaro è anche l’atteggiamento di Peruzzi nei confronti di modi e tematiche “imposti” dal regime nel ventennio fascista. Malgrado l’esperienza già notevole ed una conclamata attitudine lo mettessero in grado di eccellere in qualsiasi tipo di impegno pittorico, egli riservò anche in quel frangente la sua attenzione maggiore a cose non ufficiali, evitando a tutti i costi la retorica ed ogni genere di affiliazione. Continuò a interessarsi della realtà di tutti i giorni, quella a lui più vicina, cercando di distinguerne la dignità attraverso un senso poetico intenso che è traduzione di quella sensazione di irripetibilità che scaturisce dall’armonia delle cose e dalla vivezza del momento che passa. Una sua dichiarazione, non firmata ma indubitabilmente autografa, definisce con esemplare chiarezza il suo credo artistico in proposito; essa contiene quasi un’esortazione al rispetto di quella libertà linguistica di cui l’arte, in relazione alla diversa sensibilità degli individui e non alle mode, dovrebbe sempre godere. Se ne riporta un brano: “Non credo che la pittura e tutta l’arte in genere, sia frutto di complicati problemi, sempre alla ricerca di formule nuove. L’importante è esprimere l’eterna poesia degli uomini e della natura. Devozione al vero, al vero che si vive e che ci è possibile percepire e possedere. Ciò che si dipinge non nasce dal nulla, ma dalla vita che viviamo quotidianamente, frutto di studio, di meditazione, di coraggio e di entusiasmo. I canoni della grande pittura sono sempre attuali e validi, aderenti alla nostra vita e alla nostra sensibilità estetica. Del resto non esiste pittura antica e pittura moderna, ma solo pittura, che, naturalmente, può essere buona o cattiva. Ma è proprio necessario un nuovo linguaggio per dire qualcosa di nuovo? E perché non dovrebbe essere lecito dire del nuovo coi vecchi mezzi, credere nei valori eterni, suggestivi della natura, penetrare in essa, comprenderla, amarla e tradurla nell’opera affinché essa sia compresa, amata, apprezzata, giudicata sia dal critico onesto e imparziale che dal pubblico osservatore. Ed infine credere nella verità, nella fede d’arte, nell’arte e per l’arte”. Persino l’ideale realistico che, nel gioco delle parti di un momento in cui la sola soggettività possibile sembrava essere retaggio dell’astrazione, doveva nominalmente appartenergli fu progressivamente accantonato da Peruzzi, a beneficio di un’attenzione emozionalmente più sincera ed estemporanea della realtà. Tanto che la fase della sua ricerca più realisticamente caratterizzata, tra gli anni Venti e metà dei Trenta, finì con l’essere da lui stesso simpaticamente “bollata” come “periodo della pignoleria”. E questo andare incontro all’emozione corrispondeva certo alla sua sensibilità, ma nel contempo gli permetteva di utilizzare una delle sue fondamentali attitudini, la “grazia pittorica”. È questa una definizione suggeritami da Nino Ricci, che è profondo conoscitore, e a suo tempo amico, di Peruzzi. La grazia in un artista è una qualità particolare, che non ha niente a che vedere con la graziosità dei soggetti trattati, non misurabile a parole ma solo con le opere. Quando c’è va riconosciuta come provvidenzialità, come qualcosa che supera ogni volontà e desiderio, dimostrandosi “dono”. Le opere di Peruzzi, anche le più tarde, non hanno mai la gravità e la stanchezza della ostentazione e della routine, anche quelle dichiarate come “repliche”. La grazia del colore e della luce le riscattano ad ogni visione, dimostrandone il pathos leggero e la poesia. Si capisce, ora più che mai, perché alle noiose teorizzazioni Peruzzi preferisse sempre l’operatività. “Non ho tempo di discutere”, diceva, “devo lavorare!”; ed è vero, il tempo e le opere dimostrano più delle parole tutte le sue ragioni. Il percorso artistico Cesare Peruzzi nasce a Montelupone (MC) il 31 dicembre 1894, ed ivi risiede con la famiglia paterna per tutto il periodo dell’infanzia e della prima giovinezza. Salvo brevi soggiorni in città italiane, come Roma, Venezia, Milano, Genova, vivrà poi sempre a Recanati, nella campagna di Chiarino prima e, dalla fine degli anni Venti, nella casa di Viale Carducci, che lascerà centenario solo poche settimane prima della morte in ospedale. Nel 1905, a soli undici anni, già attratto dalla pittura e dall’arte, esegue, a matita, una copia della cinquecentesca tela “Madonna del latte” di Antonio da Faenza nella Collegiata di Montelupone. Alcuni anni dopo, nel 1911, ripete l’operazione dimostrando di avere già acquisito manualità e notevole dimestichezza con la pittura ed il colore. Dopo aver superato brillantemente le “Tecniche” a Macerata, frequenta l’Istituto Superiore di Belle Arti a Roma. La guerra è causa di interruzione degli studi, che tuttavia Peruzzi completa appena tornato dal fronte albanese. Tornato a Roma frequenta anche l’Accademia di Francia e, facendo tesoro degli insegnamenti di esperti maestri, si affina nel disegno “dal vero” soprattutto esercitandosi sul “nudo” sia maschile che femminile. All’inizio degli anni Venti sposa Maria Giochi e va a vivere nella villa di Chiarino al centro di una vasta tenuta. A Chiarino, in una fase della vita particolarmente felice in cui nasce la prima figlia, familiarizza con la vita contadina ed avverte l’imperiosa necessità di dipingere all’aria aperta. Realizza alcune opere significative, come: Tramonto marchigiano, Balia e bambini, La polenta, Il calzolaio nella stalla, Io e la mia bambina, Vecchie stanche, Autoritratto, Campagna marchigiana, Tre generazioni. Dal 1925 al 1935, periodo che l’artista ha ironicamente definito “della pignoleria”, pratica soprattutto l’acquerello, ottenendo risultati che, visti oggi, rivelano la sua vocazione intimista ed una sostanziale autonomia rispetto a quella che veniva considerata “arte di regime”, più che altro attenta alle celebrazioni retoriche. Il “Dizionario dei pittori italiani” della “Società editrice Dante Alighieri”, stampato nel 1928, cita Peruzzi tra gli artisti marchigiani degni di notorietà nazionale nei primi venticinque anni del secolo; insieme a lui figurano: Giovanni Pierpaoli, Cesare Marcorelli, Giuseppe Vaccai, Gabriele Galantara, Luigi Bartolucci, Francesco Vitalini, Adolfo De Carolis, Luigi Bartolini, Scipione (Gino Bonichi), Diego Pettinelli, Orlando Sora, Alessandro Gallucci, Bruno Marsili, Anselmo Bucci, Ferruccio Mengaroni, Antonello Moroni, Francesco Carnevali. Trasferitosi a Recanati, dedica oltre quarant’anni della sua vita all’insegnamento del disegno nelle scuole medie. Innumerevoli le opere che gli vengono commissionate per chiara fama, ed alcune, di notevole impegno, destinate a luoghi di culto e ad edifici pubblici in varie regioni. Dalla prima mostra “Secessione” (Roma 1915), dove suoi quadri figurano accanto a quelli di Degas, Cézanne, Renoir, Guidi, Casorati e Spadini, all’ultima antologica nell’Atrio Comunale di Recanati (giugno 1994), ha partecipato ad oltre 200 collettive in Italia e all’estero, e più di 80 sono le mostre personali nelle principali città italiane. Lucio Del Gobbo |