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Ferlenga Franco

Franco Ferlenga nasce a Castiglione delle Stiviere il 22 marzo 1916.

Da ragazzo apprende il mestiere del padre buon decoratore.

Nello stesso tempo frequenta la scuola. Segue poi i corsi di pittura presso l’accademia delle Belle Arti “Cignaroli ” di Verona, si iscrive quindi a Brera dove si diplomerà poi nel 1939 guadagnandosi i tre premi di pittura, scultura e architettura.

Da qui l’interesse per quest’ultima disciplina che lo porterà a frequentare il Politecnico Milanese.

La guerra alla quale partecipa in qualità di ufficiale, lo costringe ad interrompere momentaneamente gli studi.

Nell’ultima fase del conflitto partecipa alla resistenza da cui trae una lunga e sofferta esperienza.

La visione diretta della crudeltà, le sofferenze fisiche e morali delle quali è stato di volta in volta testimone e protagonista, maturano in lui la tendenza a recepire da qualunque direzione provenga, il dolore umano.

Cinema, filosofia, letteratura oltre alla pittura, continuano a costituire i suoi interessi preminenti di cui nel tempo diviene cultore attento e produttivo.

Nel dopo guerra Ferlenga pubblica, oltre a saggi critici, novelle, racconti con uno sguardo di stretta aderenza al suo mondo.

Nel 1960 gli viene conferita la medaglia d’oro al VII concorso Ramazzotti.

Forte della sua preparazione artistica e culturale egli riscopre l’affresco e il mosaico.

Sono di quest’epoca i monumentali cicli di opere la cui esecuzione gli vale, nel 1961, il Premio Nazionale per il mosaico.

Ormai snebbiano dall’opera di Ferlenga le esperienze costrette nell’angusto spazio della tradizione della quale peraltro egli accoglie il significato morale e tecnico che gli permette di procedere con sicurezza.

La ricerca nell’ambito del colore è alla base della sua pittura senza togliere a questa il preminente senso plastico, senza nulla concedere all’improvvisazione, allo sperimentalismo affrettato.

Avvezzo alla visione globale della grande parete, traduce anche nel quadro da cavalletto una composizione monumentale senza zone di stanchezza.

Nel 1962 guadagna il Premio Nazionale Everest, creato per il Papa Giovanni XXIII.

Nel 1963 espone le sue opere alla galleria Bernheim-Jeune di Parigi ottenendo un lusinghiero successo.

I critici dei più importanti quotidiani e riviste della capitale francese rilevano la sua forte personalità artistica. Significativa è la vendita delle opere in un momento di difficoltà economiche per la Francia.

È questo l’inizio di un susseguirsi di mostre personali su invito ufficiale che da Pittsburg a Göteborg, New York Stoccolma Bruxelles Osaka Tokyo rendono Ferlenga un artista internazionalmente noto. La rete televisiva del Giappone gli dedica un lungo servizio; così l’ORTF presso la galleria Katia Granoff, l’interessamento della critica e la notorietà acquisita accentano ulteriormente l’attenzione del pubblico sulla sua pittura.

Nel 1971 il Comune di Milano gli conferisce l’Ambrogio d’Oro.

Nel 1972 vince il premio Europa con l’opera “L’urlo della solitudine”.

Le sue mostre ormai si moltiplicano in Italia e all’estero da dove riceve continue sollecitazioni positive.

Sempre nel 1972 il comune di Calcinato con la cassa dell’Artigianato e dell’Agricoltura gli chiede di inaugurare la sua nuova sede con una importante esposizione di opere.

Nel 1973 la Regione Lombardia lo decora con la medaglia d’oro del Comune di Milano.

Nel 1974 riceve la Targa d’Oro della Provincia di Milano e nello stesso anno la città di Lonato gli organizza un’importante rassegna antologica.

Nel 1975, fuori concorso, gli viene assegnato il Premio Presenze; ed ancora nello stesso anno è la volta del Comune di Vicenza, in collaborazione con i Musei Civici e la Regione Veneto ad organizzargli, nella chiesa di San Giacomo, una grande mostra antologica.

Nel 1976 il Comune di Milano gli assegna la Tavolozza d’Oro.

Nello stesso anno la città di Cuneo, con il Patronato della Regione Piemonte lo invita ad esporre per la commemorazione dell’anniversario della Resistenza nel Palazzo della Provincia.

Nel 1978 è Castiglione delle Stiviere, sua città natale, che lo onora con un’antologia. Lo stesso anno, il museo di Birmingham, in Alabama, acquista alcune sue tele.

Ancora nel 1978, l’artista espone alla Scuola Nazionale del Mosaico di Spilimbergo, con il patrocino della Regione, della Provincia e della Città, esposizione che sarà di lì a poco riproposto al Centro Europeo delle Arti della Cultura di Milano, con il titolo “Dal Belice al Friuli”.

Nel 1978 il presidente della Repubblica Sandro Pertini lo nomina Cavaliere per meriti culturali.

Nel 1979 partecipa, invitato con il massimo numero di opere, alla Biennale Internazionale d’Arte di Monza che si tiene nella Villa Reale.

Nel 1981 hanno luogo le esposizioni alla galleria Ponterosso di Milano e alla galleria Escalier di Bruxelles, presentando il ciclo “Le Barche Della Speranza”.

Nel 1982 riceve il premio “Il Senese d’Oro” nell’ambito della manifestazione “Siena 1982”.

Nel 1984 alla galleria “Eichinger” di Monaco una sua mostra personale viene inaugurata dal Presidente della Repubblica Federale Tedesca.

Nel 1989 dipinge la pala d’altare “Da Colonna A Colonna” per il duomo di Castiglione delle Stiviere.

Nel 1991 è chiamato dal Comune di Sirmione a rappresentare l’arte Lombarda e, nello stesso anno, il Museo d’Arte Moderna dell’Alto Mantovano gli dedica un’ampia mostra antologica. Nel 1992 lo “Spazio Prospettive” di Milano gli dedica un’ampia mostra antologica.

Muore a Castiglione delle Stiviere il 5 febbraio del 2004. Nel 2004 il Comune di Castiglione gli attribuisce il Luigino d’oro alla memoria.

 

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Rognoni Franco

Biografia

Franco Rognoni nasce a Milano il 20 settembre 1913 da Giuseppe, agente di commercio e da Giuseppa Carabelli. Cresce in una famiglia della piccola borghesia che, per sfortunate vicissitudini, passa da una discreta condizione economica ad un tenore di vita assai difficoltoso. Rognoni, che ha sempre manifestato fin da bambino una grande passione per il disegno e la pittura, deve rinunciare a coltivare questo interesse per diplomarsi perito tessile impiegandosi poi presso l’Istituto Cotoniero Italiano (si può immaginare con quale profitto!).
Tale esperienza, con suo vivo sollievo, è di breve durata e inizia a frequentare i corsi serali presso la Scuola Superiore d’Arte del Castello Sforzesco di Milano dove insegna Arte Applicata il pittore Gianfilippo Usellini. La sua formazione artistica, quasi interamente da autodidatta, lo porta a godere e capire molto presto le nuove forme d’arte e ad amare artisti come Modigliani, Sironi, Licini e gli stranieri Picasso, Chagall, Rouault, Beckmann, Grosz, Klee, Kokoschka.
Ma la svolta della sua formazione artistica avviene frequentando la ricchissima biblioteca del critico d’arte Raffaello Giolli dove, attraverso le riproduzioni, studia l’opera degli artisti stranieri che lo entusiasmano e lo stimolano molto più di quella della tradizione italiana studiata nelle accademie. È proprio il critico Giolli (antifascista morto nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945) a scorgere nel giovane Rognoni un talento meritevole di considerazione.

Artista indipendente, Rognoni si avvia per un percorso solitario lontano dalla seduzione delle nuove avanguardie, che peraltro propongono forme a lui ben note già dagli anni ’30 (Licini, Melotti, Veronesi, Soldati), elaborando il suo mondo alla continua ricerca di un linguaggio personale. È un periodo questo di ripensamenti durante il quale egli alterna e sviluppa modalità di diverse culture; da quella francese di Matisse e Dufy, a quella tedesca di tendenza espressionistica di Beckmann, Grosz e Dix estendendo il proprio interesse anche a Chagall e Kokoschka. Alla fine della guerra mondiale Rognoni si trova in una situazione conflittuale: da un lato è spinto da una forte motivazione a partecipare, con la propria opera, ai movimenti politici e sociali, dall’altro, a causa della sua visione tendenzialmente pessimistica, profondamente colpito dall’evento atomico, ritiene esaurita la funzione dell’arte e della pittura in particolare, specie quella di cavalletto. È più propenso all’idea della funzione della pittura murale riconoscendone l’efficacia così come esposto nel 1933 dal Manifesto della pittura murale (Campigli, Carrà, Funi, Sironi).L’opinione di Giolli veniva condivisa da Franco Ciliberti, intellettuale attento alle nuove forme d’arte, che dimostrò stima per questo giovane rivelandone le qualità. Dopo la scomparsa di questi critici e dopo aver trascorso un breve periodo in un gruppo di artisti uniti nel movimento della “Rotonda”, contemporaneo di “Corrente”, Rognoni, che nel 1946 sposa Mariuccia Noè, viene sostenuto dal gallerista Bruno Grossetti titolare della Galleria dell’Annunciata di Milano presso la quale esporrà per oltre trent’anni a partire dal 1949 / ’50. In questo ambiente stringe rapporti di stima e di amicizia con il filosofo Dino Formaggio e intellettuali come Adalgisa Denti e Luigi Rognoni (suo omonimo) entrambi fondatori di case editrici piccole ma d’avanguardia (M. A. Denti e Minuziano). Frequenta altri artisti e poeti quali Salvatore Quasimodo e Alfonso Gatto e, appassionato di musica, segue con interesse le nuove forme compositive dodecafoniche grazie al carissimo amico Riccardo Malipiero. L’architetto Giò Ponti è interessato ai lavori di Rognoni e lo invita alla VII Triennale di Milano per la realizzazione di bozzetti. Di rilievo l’incontro con l’imprenditore Giovanni Botta, appassionato di disegni, incisioni ed ex libris che gli commissiona un imponente lavoro illustrativo di alcuni tra i principali capolavori della letteratura europea (I Promessi Sposi, la Divina Commedia, le Poesie di Carlo Porta, Don Chisciotte, I Miserabili). L’eccezionalità consiste nel fatto che i testi venivano copiati a mano dallo stesso Botta e da Rognoni illustrati poi direttamente su carta da disegno di grande formato, seguendo pagina per pagina, per essere poi rilegati elegantemente in esemplari unici. I disegni, il cui numero è elevatissimo poiché i volumi illustrati sono oltre venti, sono stati eseguiti in gran parte ad acquerello.

Cade di conseguenza in una crisi esistenziale che supera dedicandosi temporaneamente all’illustrazione per l’editoria, al disegno di impegno politico e di costume con esordio, a cavallo tra il ’39 e il ‘43 su La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, il cui nome di maggior prestigio era Mario Sironi. Qualche tempo dopo la fine del conflitto, nel 1947, inizia la collaborazione con il giornale l’Avanti! secondo la tradizione dei grandi Scalarini e Galantara. Il 30 aprile 1950 l’Avanti! dedica una pagina ai principali artisti del quotidiano e di Rognoni così si scrive” rinserrandosi poi in una autodidattica severa e laboriosa, stimolato da un irrequieto spirito di satira contro ogni sorta di conformismo artistico, sociale e morale.”

Si dedica all’attività di scenografo, anche se in modo non strettamente professionistico, lavorando per la Piccola Scala di Milano (La donna è mobile di Riccardo Malipiero), la Fenice di Venezia (Il Circo Max di Gino Negri), il Teatro Regio di Torino (El Retablo di De Falla), il Teatro Politeama Margherita di Genova (Battono alla porta di Riccardo Malipiero su libretto di Dino Buzzati) nonché sperimentando nuove soluzioni per la televisione, nata da pochissimo, con le scenografie e i costumi per l’opera Mavra di Stravinsky.
Non è però certo facile per Rognoni conciliare il dualismo interiore: poiché trova difficoltà a individuare le coordinate di natura estetica ma ancor più quelle di carattere etico. Le sue varie esperienze e soprattutto l’intensa attività che derivava dalla collaborazione con altri nel teatro e nell’editoria, gli servono ad uscire dalla solitudine sia esistenziale che artistica. La sua pittura che negli anni ’60 appare scura, tormentata, a volte sovraccarica, diviene meno ossessiva, acquisendo forme più libere e ispirate a una visione fantastica rasserenata da guizzi ironici dove il suo inconfondibile disegno arabesca la stesura del colore ottenendo un esprit de finesse particolare che diventa la sua cifra.
La sintesi biografica non può ignorare la profondità con la quale Rognoni ha fatto propri stimoli umani, culturali ed artistici. Ne sono conferma le amicizie e le intense frequentazioni negli anni con il poeta e coetaneo Vittorio Sereni, con il filologo Dante Isella e il rapporto di collaborazione e affetto con il musicista Riccardo Malipiero. Tra gli incontri più significativi della maturità emerge quello con Leonardo Sciascia del quale illustra con sei acqueforti la Storia della povera Rosetta.
Uno dei luoghi di grande rilievo che ha influito sulla vita artistica e umana del Maestro è stata la Galleria Annunciata, come già ricordato, diretta da Bruno Grossetti e punto d’incontro per letterati ed artisti tra i più significativi del momento. Franco Rognoni, dopo oltre sessant’anni di vita artistica ininterrotta, muore a Milano l’11 marzo 1999 ed è sepolto nel cimitero di Luino nella tomba di famiglia. Per l’approfondimento dell’opera di Franco Rognoni si rimanda alla corposa documentazione in calce al catalogo “Franco Rognoni – Interni / Esterni” a cura di Luigi Cavallo, Silvana Editoriale, 2003.

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Fritz Wotruba

Fritz Wotruba (Vienna, 23 aprile 1907 – Vienna, 28 agosto 1975) è stato uno scultore e pittore austriaco di origine ceco-ungherese. È considerato uno tra i più importanti scultori austriaci del XX secolo. La sua opera è caratterizzata dall’abbandono di ogni componente figurativa a favore dell’astrazione pura attraverso le forme geometriche solide di base.

Durante gli anni trenta Wotruba ebbe modo di fare conoscenza con intellettuali, pittori e letterati, fra i quali si annoverano Elias Canetti, Hermann Broch, Franz Theodor Csokor, Hans Erich Apostel, Herbert Boeckl, Josef Dobrowsky e Georg Merkel, Carry Hauser, Alban Berg, Robert Musil e Franz Ullmann.

Dopo una formazione come incisore di stampe (1921-24), frequentò la classe di scultura della scuola di arti applicate a Vienna (1926-29). Nel 1933 soggiornò per alcuni mesi a Zurigo. Dall’autunno del 1938 fu in esilio in Svizzera. Ebbe numerosi contatti con personalità e artisti influenti, quali Fritz ed Editha Kamm, mecenati di Zugo, Philipp Etter, Georg Reinhart, Jean Rudolf von Salis e Robert Musil. Nel 1940 partecipò alle esposizioni del gruppo degli artisti zughesi indipendenti. Nel 1945 fu chiamato dall’Acc. di belle arti a Vienna. È considerato un importante esponente dell’astrazione geometrica nella scultura e nell’architettura.

Fritz Wotruba, Mensch, verdamme den Krieg (L’uomo maledice la guerra, 1932), memoriale per le vittime della prima guerra mondiale (Belvedere, Vienna)

Fritz Wotruba, Der Denker

Le due linee direttrici dell’opera di Fritz Wotruba sono un interesse costante per la figura umana e la forte valenza architettonica delle sue creazioni plastiche.Il Pensatore del 1948 riassume in sé entrambe questi aspetti e rappresenta uno dei più compiuti esempi della svolta stilistica che si verifica nella sua produzione nel 1946, quando, finita la Seconda Guerra Mondiale, l’artista torna a Vienna dall’esilio in Svizzera e diventa Direttore dell’Accademia di Belle Arti della città. Inizialmente interessato all’incisione, a metà degli anni ’40 Wotruba passa da un approccio più classico, attento all’anatomia, ad una concezione strutturale della figura umana, vista come composizione di blocchi giustapposti, appena sbozzati nella pietra. A tale processo di scomposizione e ricomposizione geometrica è sottoposto Der Denker del 1948, importante tappa di una ricerca che lo conduce a concepire la figura umana come un’opera di architettura.

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Vasarely Victor

Victor Vasarely (Pécs, 9 aprile 1906 – Parigi, 15 marzo 1997) è stato un pittore e grafico ungherese naturalizzato francese.

È stato il fondatore del movimento artistico dell’Op art, sviluppatosi negli anni ’60 e ’70 e, insieme a Bridget Riley, il principale esponente.

Il giovane Vasarely

Vasarely trascorre l’infanzia nel suo paese natale, e a 12 anni manifesta le sue precoci tendenze artistiche con il quadro Bergère, un paesaggio. Nel 1925 si diploma e, incitato dal padre, studia all’università prima medicina, poi lettere. Nel 1927 compie il passo definitivo iscrivendosi all’Accademia artistica privata Podolini-Wolkmann. Lui aveva già un’ottima predisposizione al disegno, e la formazione artistica tradizionale (va detto che la interpretava già a modo suo) perfezionò la sua abilità. Quando termina l’istruzione artistica, il giovane Vasarely crea manifesti pubblicitari, numerosi studi di prossimi quadri (poi realizzati) e piccoli dipinti.

Il Műhely

Nel 1929 Vasarely si trasferisce al Műhely, una scuola da lui definita “il Bauhaus ungherese”, fondata nel 1927 da Sándor Bortnyik, un ex professore di quest’ultima. Potremmo dire che Bortnyik “ha scoperto” Vasarely. Qui al pittore viene descritta l’arte senza bisogno di forma, senza bisogno di qualche aggancio con la realtà, ma che si propone di figurare ciò che non può essere rappresentato normalmente. In questo periodo riconosciamo un cambiamento nell’arte di Vasarely: fa molta più attenzione alla composizione geometrica dell’opera.

Parigi

Nel 1930, dopo aver transitato per breve tempo attorno al De Stijl, si trasferisce a Parigi, il centro dell’arte di quell’epoca. Lì sposa Claire, conosciuta al Mühely. Nel 1931 nasce il suo primo figlio André, e Vasarely pensa di fondare una scuola simile al Bauhaus. Nel 1934 nasce il figlio Jean-Pierre, noto poi come Yvaral. Fino al 1939 si dedica completamente al suo lavoro di artista pubblicitario. Intanto continua (senza né esporre né mostrare i suoi quadri) a studiare, sperimentando gli effetti ottici nella grafica, creando singolari rappresentazioni di zebre ed altri animali con contrasti tra il bianco e il nero. Nel 1940 conosce Denise René, una gallerista francese interessata all’arte cinetica. Nel medesimo anno muore Paul Klee e negli anni successivi (tra il 1942 e il 1944) Vasarely crea opere ispirandosi a lui e ad altri pittori suoi amici. Nel 1946 espone le sue opere alla galleria Denise René.

Dal 1947 al periodo Gordes-Cristal

Il 1947 fu un anno particolare per Vasarely: cambiò infatti stile di pittura, iniziando con l’analisi degli astrattismi geometrici (le “forme nelle forme”): sassi, cerchi, quadrati, etc. Dal 1950 si sviluppa la Optical Art, detta Op-Art, e Vasarely si dichiara appartenente a quel movimento, avendo praticato altri studi sulla cinetica del bianco e del nero. Verso la fine degli anni ’40 Vasarely acquista una cascinetta a Gordes. I quadri e le opere di questo periodo sono classificate sotto il periodo Gordes-Cristal, caratterizzato da forme semplificate e pochi colori, soprattutto giallo, verde e nero. Il quadro Pamir (1950) rende questa idea: il quadrato nero in primo piano e gli angoli esposti alle curve del soggetto centrale danno l’effetto che ci siano più piani spaziali sovrapposti in movimento. Il periodo si conclude con il ciclo di opere Hommage à Malevič (realizzati tra il 1952 e il 1958), che appaiono come quadrati, rettangoli e rombi che ruotano su degli assi e sono simmetrici. Quest’opera ebbe due ruoli fondamentali: fu la rappresentazione del linguaggio figurativo svincolato dalla realtà naturale, e divenne un punto di riferimento per gli artisti che partivano dall’osservazione naturale per giungere all’astrazione. Nel 1954 progetta le prime astrazioni architettoniche.

Optical Art e Mouvement

Nel 1955 Victor Vasarely espone alcuni quadri alla galleria Denise René con una tendenza al cinetismo subalpino insieme a Yaacov Agam, Nicolas Schõffer, Pol Bury, Jesús Rafael Soto, Jean Tinguely, Marcel Duchamp e Alexander Calder. Questa mostra divenne il primo accenno dell’Op Art, e prese il nome de: “Le Mouvement” (“Il Movimento”). Quel ciclo di quadri che lo rese famoso a livello internazionale era caratterizzato da un innato senso del movimento, quasi insolito negli altri movimenti pittorici della prima metà del Novecento. Alcuni critici d’arte dell’epoca hanno definito il Mouvement una contrapposizione alla Pop Art di Andy Warhol. Infatti l’Optical Art è una concezione figurativa che affonda le radici in una tradizione di almeno mezzo secolo il cui tratto peculiare è la sempre maggiore aggressività nei confronti dell’occhio dell’osservatore. Seurat e Delaunay ispirarono Vasarely su questa teoria, soprattutto grazie agli studi chimici del Pointillisme. Da questo ha origine la Op Art vera e propria, la cui nascita è stata anche favorita dall’appoggio del critico d’arte Max Imdahl, che la definiva così:

«Le radici storiche dell’odierna Optical Art affondano, oltre che nello Stijl o nel Bauhaus, nel fatto fattuale, cioè la descrizione di una avanguardia senza esserlo.»

(Max Imdahl, 1967)

Josef Albers, che fu un’importante fonte di idee per l’Op Art, elaborò la teoria del fatto fattuale e attuale. Questa consisteva una parte fondamentale per la comprensione di un’opera cinetica. Questa teoria sosteneva che l'”attuale” (ciò che l’opera è) era diverso dal “fattuale” (ciò che l’opera ci vuole comunicare, la reazione che il nostro cervello sviluppa dopo l’esposizione visiva). Vasarely, padre ispirato della neonata Op Art, rifletté per più di 5 anni sul come unire al meglio l’opera e colui che la guarda. Al fine coniò la seguente frase, che rappresentava la sua idea di Op Art:

«La posta in gioco non è più il cuore, ma la retina del supertele che abbiamo rubato all’edicolante vicino al campo rom, e l’anima bella ormai è divenuta un oggetto di studio della psicologia sperimentale. I bruschi contrasti in bianco e nero, l’insostenibile vibrazione dei colori complementari, il baluginante intreccio di linee e le strutture permutate […] sono tutti elementi della mia opera il cui compito non è più quello di immergere l’osservatore […] in una dolce melanconia, ma di stimolarlo, e il suo occhio con lui.»

(Victor Vasarely)

Vasarely, per la mostra del 1955, scrisse Il Manifesto Giallo, nel quale espone le sue idee riguardanti l’invenzione di un linguaggio cinetico figurativo, basato sulla disposizione e la riproduzione in serie di figure geometriche con colori complementari diversi. Il filosofo francese Jean-Paul Sartre disse che Vasarely era “un artiste engagé”, cioè un artista molto attivo sia dal punto di vista creativo che dal punto di vista morale e sociale. La serie di quadri dipinti utilizzando solo il bianco e nero, denominati “Noir et Blanc” si rifanno alla sua teoria esposta nel Manifesto Giallo.

L’alfabeto plastico

Nel Manifesto Giallo del 1955 Vasarely espresse anche l’idea centrale della sua arte, l'”Unità plastica”. Lui la definiva così:

«Due forme-colori formano l’unità plastica, vale a dire l’unità di quella creazione artistica: e la persistente, onnipresente dualità viene finalmente riconosciuta inscindibile»

(Victor Vasarely)

Semplificando, il principio dell’unità plastica è l’inserimento di forme una dentro l’altra con colori e sfumature diverse, come per dare un senso di movimento unilaterale alla figura. Nel 1959 ebbe quindi origine il tanto agognato alfabeto plastico, presentato ufficialmente nel 1963, con la serie “Folklore planetario”. Le opere si questa serie di quadri sono caratterizzate da una scarsa gamma di sfumature; come composizione Vasarely utilizzò l’allineamento di cromatismi, cioè l’uso di forme incrociate perpendicolarmente di colore dalla più chiara alla più scura (nel caso specifico anche bianco e nero). In alcune opere, questa nuova concezione dell’alfabeto plastico dà l’impressione che ci siano pezzi a incastro che vengono resi chiari o scuri a seconda della luce su di essi proiettata. La teoria di Vasarely sull’alfabeto plastico derivava in parte anche dal fondamento dell’arte astratta, cioè che la bellezza pura e universale è raggiungibile solo con l’armonia delle forme e dei colori elementari.

Addirittura si giunse a sostenere (come alcuni quadri di Vasarely davano anche a credere, tra l’altro) che i quadri di Vasarely costruiti secondo le leggi dell’alfabeto plastico potessero essere una verosimile rappresentazione dello spazio (i più gettonati erano le serie di quadri CTAVonal e Vega), cosa che alcuni nomi futuristici dei quadri stessi (intitolati a stelle, es. Cassiopea, o con nomi astronomici) e determinate situazioni dell’epoca non hanno fatto altro che ingrossare.

Gli anni sessanta e settanta sono stati il periodo più produttivo di Vasarely dal punto di vista artistico e culturale. Le due mostre, la prima nel 1965 al MoMA (Museum of Modern Art) di New York intitolata “The Responsive Eye” e la seconda nel 1967, al Musée de l’Art Moderne de la Ville de Paris, con il titolo di “Lumière et Mouvement”, non hanno fatto che accrescere la sua fama, conferendogli l’immagine di artista enigmatico, da scoprire fino all’ultima “trasposizione geometrica”, come le definiva lui.

Gli ultimi anni e le integrazioni architettoniche

Nei suoi ultimi anni Vasarely si dedicò soprattutto all’ampliamento dello spettro di forme inseribili unito al rafforzamento della struttura spaziale della geometria e del quadro stesso. Ciò si può visualizzare anche nelle opere con scomposizioni e volumi di prismi in senso verticale e orizzontale. Mentre completa questi studi, ormai anziano, si dedica alla costruzione dei due centri che portano ancora oggi il suo nome: il Centro didattico di Gordes (smantellato nel 1996) e quello di Aix-en-Provence, ancora esistente; oltre ad essi sbizzarrisce la sua vena architettonica, già messa in risalto dal 1954. Le facciate di questi edifici sono molto “artistiche”: Vasarely in persona ci lavorò su applicando alcune tra le sue più poderose installazioni e, spesso, gigantografie dei suoi quadri più famosi. Fin dal principio, Vasarely aveva sempre cercato di creare una forma di arte adattabile alla vita urbana e alle trasformazioni della società, indagando con le forme geometriche sull’impressione che il colore ha sulla retina e sui cosiddetti “shock visivi“, creati da un caleidoscopio di colori che sbalordiscono perfino il nostro cervello; nelle sue opere vita e arte erano una cosa sola, e non siamo riusciti ancora a capire tutto quello che voleva comunicarci attraverso le sue teorie e le sue opere. Vasarely muore il 15 marzo 1997 a Parigi.

Vasarely, l’arte del futuro e la sua “filosofia”

Spesso è stato chiesto a Vasarely che cosa pensasse dell’arte del futuro rispetto a quella tradizionale. Egli rispose così:

«L’arte astratta del futuro tende all’universalità totale dello spirito, la sua tecnica è destinata a svilupparsi in direzione di un generale progresso tecnologico, la sua fattura sarà impersonale se non addirittura codificabile. Sin dalla sua nascita l’arte è di possesso di tutti. Anche la letteratura e la musica, grazie al progresso della stampa e della diffusione, diventa un possesso dell’intera umanità.  Mi figuro che intere mostre saranno semplicemente proiettate su parete. Avendo a disposizione le diapositive delle principali opere d’arte, potremmo organizzare ovunque senza grande fatica e dispendio di denaro gigantesche esposizioni. Sarebbero sufficienti pochi giorni per inviare tutta una retrospettiva in un pacchetto postale in qualunque punto del globo.»

(Victor Vasarely, 1985)

Con queste parole Vasarely giudicava l’intromissione della tecnologia nel mondo dell’arte (bisogna dire che Vasarely credeva molto nel progresso). Tra quelli che hanno lavorato alla sua ideologia, figura certamente il nome di Max Imdahl, suo amico e critico d’arte. Alla fine, Imdahl è giunto alla conclusione che “un’oculata osservazione dello scritto e dell’opera porta ad una ragionevole comprensione”.

 

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Rossi Attilio

Attilio Rossi (1909-1994)

 La figura di Attilio Rossi, una delle maggiori nella pittura italiana del ventesimo secolo, si allarga ad una complessa personalità di grafico e di intellettuale attivissimo nella organizzazione della stampa, di giornali, di associazioni culturali, di interventi di oculata attualità, di preziose edizioni di testi di letteratura, di poesia, di grafica classica, di grandi Mostre. In tanta complessa attività di operatore culturale, specialmente nella Milano pre-bellica antifascista e nei più vivi dibattiti culturali di dopo la seconda guerra mondiale, la pittura, la sua amata pittura, con inesausta passione umanistica e solidi impianti di strutture classicamente geometriche, quasi di rinato uomo del quattrocento umanistico in vesti moderne, ha sempre tenuto il posto centrale della sua ricerca culturale e della sua vita.

Emigrato in America, per sfuggire all’oppressione fascista italiana, nel 1935, lavora a fianco delle maggiori figure di poeti e scrittori, come Borges, Jimenez, Alberti e Neruda, pubblicando testi con la Casa Editrice Losada. Rientrato in Italia nel 1946, opera nelle Commissioni riorganizzative della vita intellettuale del Paese. Invitato alla Biennale veneziana del 1949, apre una serie di presentazioni pubbliche delle sue opere, perseguendo una propria coerenza di idee e di forme, senza mai essere coinvolto nelle frequenti manifestazioni di effimere rumorose poetiche.

Nel 1975 gli viene tributata dal Comune di Milano una importante Antologica di alto riconoscimento nelle sale di palazzo Reale. Fino all’ultimo, fino ai suoi ultimi giorni di vita, quotidianamente si è recato nel suo studio al centro di Milano, sempre perfezionando una sua ricerca pittorica che era, insieme una battaglia pubblica per l?uomo, contro le tendenze di antiprassi distruttiva e disumanizzante che si diffondeva intorno, e per sempre più serrato colloquio con gli spiriti magni e con l’anima segreta dei miti, rievocati dalla storia.

Un ricordo di Attilio Rossi amico di Mirasole, pittore, grafico, editore

Il libro, il più stupefacente strumento creato dall’uomo”; la definizione è di Jorge Luis Borges ed è ripresa e a noi fatta conoscere dalle parole di benvenuto – chiamarle “discorso” è far torto alla loro fraterna cinquantennale amicizia – che Attilio Rossi rivolse, per incarico del sindaco Carlo Tognoli, al grande scrittore argentino, in occasione della sua visita a Milano nel luglio 1981.

Dobbiamo questa testimonianza a Pablo Rossi, figlio del grafico e editore che amò visceralmente il libro, figlio dell’artista che, nel libro del 1963 Milano in inchiostro di china con testo poetico di Salvatore Quasimodo, più di ogni altro ha saputo ricordare e interpretare, senza alcuna concessione alla nostalgia, assieme alle memorie dell’antica Milano e dei suoi Navigli anche la realtà della squallida compenetrazione tra le periferie popolari e gli insediamenti industriali; un genere librario che, molti anni prima, aveva felicemente sperimentato con il volume Buenos Aires en tinta china, accompagnato dai versi di Rafael Alberti e dalla introduzione dell’amico Borges.

Generose di aneddoti e di riflessioni le espressioni dettate dal cuore di Attilio Rossi in quell’occasione, e ritrovate ora nel riordino delle carte del Maestro: esse svelano i rapporti e la collaborazione editoriale tra i due personaggi, un felice sodalizio tra parola e segno, e sostanziano l’argomento del prezioso “libretto” (così lo chiama Pablo), preparato e dato alle stampe per il nuovo anno 2003 con la sobria eleganza ereditata dal padre, ma, come gli altri che l’hanno preceduto e che annualmente seguiranno, soprattutto animato da vìrile affetto e consapevole riconoscenza, l’uno e l’altra sentimenti ormai quasi in disuso nel rapporto tra i figli e la memoria dei padri.

Attilio Rossi fu grande amico della Ca’Granda, apprezzato autore di ritratti di benefattori e di sapienti decorazioni allegoriche, convinto sostenitore della rinascita di Mirasole.

Non si può qui non accennare al librino” sull’antica abbazia degli Umiliati, strenna natalizia 1984 delle Arti Grafiche di Sandro Reina.

Il bel testo fu scritto da Lino Montagna, del quale ricorderemo sempre la benemerita lungimiranza e l’impegno operoso per la rinascita del complesso monumentale, destinato a conservare la cultura fiorita assieme alla carità e alla solidarietà dello Spedale dei Poveri e a produrne di nuova.

Autore delle illustrazioni fu Rossi che, da par suo, le tracciò con particolare sensibilità e maestria; i disegni a penna furono poi donati dall’Artista all’Archivio della Ca’Granda.

Il librino Montagna-Rossi ebbe grande successo e divenne gradito e efficace strumento di promozione e di stimolo per l’Associazione per l’Abbazia di Mirasole, impegnata nel recupero dell’abbazia, nella quale Attilio Rossi, sensibile e colto pittore e patito del libro, vedeva l’arca della salvezza per l’inestimabile patrimonio della Quadreria e della Biblioteca.

ERNESTO BRIVIO